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Racconto / “Per il bene vostro e dell’intera collettività”

La mano sulla spalla. Un tocco leggero, quasi gentile.

Mi volto. L’uomo indossa giacca a vento nera, cappello nero, mascherina nera. Certamente è della Milizia.

“Buongiorno, signore.”

“Buongiorno a lei.”

“Vuole seguirmi, per favore?”

Lo guardo. Ha occhi grigi. Rispondo: “E perché dovrei?”

“L’abbiamo sentita.”

“Non capisco…”

“Abbiamo sentito che cosa ha detto. E visto che cosa ha fatto. Ma ora mi segua, prego” e con il braccio mi indica la strada.

Arriviamo nel Palazzo. Alto. Grigio come gli occhi di questo sconosciuto.

“Dove mi porta?”

L’uomo non risponde. Di nuovo, con il braccio, indica la strada.

In questi casi non si può discutere. Se ti opponi, se fai resistenza, non c’è scampo. Conosco bene l’arma che l’uomo nasconde sotto la giacca. Basta un colpo per fare di te un bel fuoco d’artificio.

L’ascensore pneumatico ci porta nei sotterranei. È sempre così. Non c’è un vero interrogatorio che non si tenga laggiù.

La stanza – piastrelle bianche, niente finestre – sembra il retrobottega di una macelleria.

“Si sieda, prego.”

Una luce accecante mi ferisce gli occhi. Non vedo più nulla.

Sul tavolo di metallo c’è un tappo di bottiglia. Ma so bene che non è un tappo di bottiglia. È un orecchio elettronico, che registrerà tutto.

“Mani sul tavolo, la prego.”

Obbedisco.

Il tappo di bottiglia si accende. L’uomo mi chiede di declinare le generalità. Come se non le sapesse.

“Molto bene. Lei sa perché è qui?”

“No.”

“Faccia uno sforzo.”

“Non ne ho idea. Me lo dica lei.”

Avverto che il tavolo si sta scaldando. Vorrei sollevare i palmi delle mani, ma sono incollati.

“Signore, temo che, se non risponderà, la temperatura del tavolo si farà sempre meno sopportabile.”

“Me ne rendo conto, ma davvero non so perché lei mi ha portato quaggiù.”

Il tavolo ora è bollente. Sotto le mani avverto uno sfrigolio. Mi sfugge un gemito.

La luce accecante si spegne e sulla parete davanti a me compare uno schermo. Strizzo gli occhi per vedere meglio. Quello lì, dentro lo schermo, sono io.

“Si riconosce?”

“Certo che sì.”

“Molto bene.”

Il me stesso del video passeggia avanti e indietro sul marciapiede. Poi ecco spuntare il mio vecchio amico. È successo ieri, ricordo. Incomincia a nevicare. Ci ripariamo sotto una tettoia. Ci stringiamo la mano.

Guardo il mio aguzzino. Ora la temperatura del tavolo è più accettabile, ma le mani sono bruciate. A causa del dolore mi spuntano le lacrime e l’uomo, premurosamente, le asciuga con un fazzoletto immacolato.

Nel video, la conversazione di ieri tra me e l’amico, colta da microfoni nascosti chissà dove, è del tutto banale. Notizie sulle famiglie e sul lavoro, qualche battuta sul tempo inclemente.

Guardo l’uomo in nero.

“Già due reati”, dice.

Lo guardo di nuovo.

“Vi siete stretti la mano. E non avete mantenuto la distanza.”

Niente da dire. È così. Ma non pensavamo che un banalissimo incontro fra due amici potesse finire nel mirino della Milizia.

“E ora – dice l’uomo – ecco il terzo reato.”

La misteriosa telecamera che sta riprendendo l’incontro stringe su di me. Eccomi mentre tolgo una mano dalla tasca, mi scosto la mascherina dal volto e… mi soffio il naso.

Dico: “Capisco.”

“Molto grave, signore. Ma non è tutto, purtroppo.”

Le immagini vengono mandate avanti velocemente, fino al momento dei saluti.

Mi ascolto mentre dico: “Buon Natale!”

E l’amico risponde, distintamente: “Buon Natale!”

L’uomo in nero mi osserva, poi guarda le mie mani incollate al tavolo.

Imploro: “La prego, non c’è bisogno di surriscaldare il tavolo. Confesso.”

“Confessa di averlo proprio detto?”

“Confesso.”

“Quattro reati” dice l’uomo in nero. “Contatto irregolare, mancata distanza, mascherina scostata e…  aver rivolto gli auguri con la formula vietata, in violazione della Legge sull’Inclusività. Sa che cosa l’aspetta?”

“Il campo… immagino.”

“Esatto. Dove…”

“… verrò benignamente rieducato.”

“Proprio così.”

La porta si apre. Un altro uomo in nero fa entrare il mio amico. Ha le mani fasciate. Ci guardiamo in silenzio.

L’aguzzino proclama: “In nome della Solidarietà e della Responsabilità, ordino che siate condotti al Centro di Ripensamento, dove trascorrerete un congruo periodo di tempo al fine di consentire all’Autorità di applicare le necessarie Procedure previste dal Protocollo di Normalizzazione Sociale. Ma lei – e così dicendo l’uomo in nero punta l’indice verso di me – dovrà prima passare dal Pronto e Benevolo Soccorso. E certamente sa perché…”

Abbasso lo sguardo e sussurro: “Perché… non ho fatto la dodicesima dose…”

“Esatto.”

Sono rassegnato. Conosco la Legge sulle Buone Procedure. E anche le parole che ora l’uomo in nero pronuncerà.

“Questo abbiamo stabilito, per il bene vostro e dell’intera collettività. Portateli via.”

Mi sveglio proprio mentre due guardie mi stanno prelevando.

Gran brutto sogno, devo dire.

E quelle parole, “… per il bene vostro e dell’intera collettività”, continuano, chissà perché, a risuonarmi nella testa.

 

 

 

Aldo Maria Valli:
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