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Nei cieli o negli abissi (a proposito del logo del Giubileo 2025)

di Alessandro Staderini Busà

Che la croce porti una somiglianza con la spada, per noi educati al pacifismo da Peace & Love sessantottino, può non esser cosa così ovvia. Ne erano, però, a conoscenza quei cavalieri che nel segno della croce e della spada i vescovi ordinavano a difensori della giustizia terrena e della fede, al tempo del Medioevo. Quelli che di fronte a una spada conficcata nel terreno solevano, fra una battaglia e l’altra, inginocchiarsi a pregare. Gli stessi che, guardandone i sepolcri, ci si facevano anche seppellire, tenendola caramente fra le braccia come noi oggi col rosario. La Croce di Santiago ne è iconograficamente una limpida dimostrazione. Fu l’emblema grazie al quale i cristiani trovarono coraggio per combattere i moriscos, ributtando di là dal mare la religione di Maometto per restituire interamente la Spagna alla Cristianità: o la Croce o la spada. Ma come – si obbietterà – non aveva un gesuita scritto che il pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina? Be’, alla faccia del Cristo relativista quale oggi ci propinano dai pulpiti, che croce e spada fossero motivi di una stessa identità ce lo aveva detto chiaro e tondo Egli stesso: non sono venuto a portare la pace, ma la spada. E chi avesse dubbi a credere alle parole del Figlio di Dio, poiché – come un altro gesuita affermava – a quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole, si faccia un giro in località San Galgano. Lì, dove sono i resti dell’antica abbazia, sta un’arma assai più vera e letale di quella del leggendario Artù. Quella che Galgano Guidotti infisse al suolo, il giorno che, a prosecuzione del medesimo cammino, da cavaliere si fece eremita, guadagnando la santità. È infatti di fronte a questa “spada nella roccia” che, dal vivo, salta all’occhio il dualismo della Croce quale mezzo di salvezza oppure di condanna: vita o morte riverberate nell’Eternità. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.

Quella della croce-ancora, invece, è una simbologia che fu partorita dai primi cristiani. Ne restano tracce – la più bella nelle catacombe di Domitilla a Roma – nelle circa duecento raffigurazioni sparse in aree cimiteriali imperiali datate fra il II e il III secolo. In questo caso, anziché lama da taglio, la croce diviene lo strumento in dotazione a una nave. Intendevano così, i fedeli al tempo delle persecuzioni, la vita umana quale navigazione drammatica tra i flutti, riprendendo peraltro l’esortazione del Maestro a Simon Pietro per mollare gli ormeggi e prendere il largo (Duc in altum). Da tale antica e catacombale origine attinge il logo del Giubileo 2025. Come si sa, l’ancora è stata spesso utilizzata come metafora della speranza, ha spiegato alla sua presentazione monsignor Fisichella. L’ancora di speranza, infatti, è il nome che in gergo marinaresco viene dato all’ancora di riserva, usata dalle imbarcazioni per compiere manovre di emergenza per stabilizzare la nave durante le tempeste. La scelta di premiare questa iconografia, fra i quasi trecento lavori giunti al concorso della Santa Sede, diceva il monsignore, è venuta direttamente da Francesco. E non discutiamo sia andata così. Il motto per il prossimo Giubileo – peregrinantes in spem – foneticamente echeggia il solacium migrantes che Francesco ha aggiunto agli attributi della Vergine Maria nelle Litanie lauretane. Così come il mare su cui si muove l’intera immagine rimanda a quel Mediterraneo “più grande cimitero d’Europa”, quale lo ha definito il vescovo di Roma.

Appena svelato al mondo cattolico, qualcuno però ha intravisto nel logo degli ammiccamenti Lgbtq+ friendly: un ventaglio di colori che, ovunque appaia, da qualche tempo non è quasi mai per caso e sempre rimanda al vessillo del pride; un abbraccio da tergo fra le quattro figure stilizzate che, con un poco di malizia, rimanderebbe a ciò che volgarmente chiamano “trenino”; il fatto di esser stato mostrato pubblicamente nel mese di giugno, dedicato al Sacro Cuore di Gesù, ma mediaticamente reclamato dalla comunità gay, bisessuale, transessuale, intersessuale, eccetera. L’autore replicava alle polemiche spiegando la simbologia dei colori adottati e di aver cercato di trovare una soluzione grafica intuitiva, simpatica, ma nello stesso tempo pratica e dinamica. Cosa che visivamente è. Ciò che non ha aggiunto, magari per modestia, magari per non sciorinare una sensibilità ai destini di quell’arcobaleno che si palesa sul suo profilo social, è come il lavoro da lui prodotto renda bene il dualismo della Croce. Parrebbe, in tal senso, una sorta di “messaggio in bottiglia”. Qualcosa di affidato ai flutti, per raggiungere i lidi di quella Chiesa cattolica rivoluzionaria, che spinge per legittimare l’unione fra persone dello stesso sesso, artefacendo una coesistenza fra Cristo e Sodoma che non può essere. Né può evitare conseguenze. Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. Se infatti la Croce è e resta un “aut aut”, alternativamente ragione di salvezza o di condanna, simbolo e mezzo di vita o di morte, la responsabilità umana – questa sconosciuta – non può esimersi dal vagliare le scelte cui si trova di fronte, poiché ne va del destino eterno, piuttosto che di quello terreno.

Ponete attenzione al logo. Seguitene l’andamento orizzontale. Guardate alle figure colorate che si abbrancano l’un l’altra come i danteschi Paolo e Francesca. Procedeteci assieme verso la grande croce-ancora. Lì vi troverete a una scelta obbligata, e allora il movimento si muterà in verticale. Poiché a seconda che con lo sguardo andiate in alto, seguendo il verso della croce, oppure in basso, assecondando il senso dell’ancora, saprete i destini di quelle anime emblematicamente rappresentate. Su, nel Regno dei Cieli. O giù, al collo una màcina da mulino, nelle profondità degli abissi.

 

 

Aldo Maria Valli:
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