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Quando Bergoglio disse: “Diventerò papa”. Colloquio con Caminante Wanderer

Tra i blog che leggo più spesso c’è Caminante Wanderer, del quale a volte traduco gli interventi. Mi piace perché si occupa dei problemi della Chiesa e di questo papato con estrema franchezza, offrendo prospettive di riflessione con le quali si può essere d’accordo o meno, ma meritano sempre attenzione. Essendo argentino, il blog è anche utile per capire meglio Francesco, del quale parla senza peli sulla lingua. Con il titolare del blog, che preferisce restare anonimo, ho avuto modo di confrontarmi più di una volta. Qui di seguito un sunto di una conversazione che abbiamo avuto ultimamente via mail. Parliamo soprattutto di Bergoglio e di come è diventato gesuita e poi papa. 

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Come hanno fatto i cardinali, nel 2013, a scegliere proprio Bergoglio. Certamente c’erano cardinali che non lo conoscevano, ma alcuni dovevano conoscerlo bene. Com’è stato possibile affidare a Bergoglio il governo della Chiesa? Lei è argentino: può aiutarci a capire meglio?

Credo che la grande maggioranza dei cardinali non lo conoscesse. Quelli che lo conoscevano bene erano i cardinali latinoamericani. Molti di loro erano consapevoli di ciò che Bergoglio avrebbe fatto con la Chiesa: è il caso dei brasiliani. Altri, come quelli del Perù e della Colombia, credo che non lo votarono.

La chiave, a mio avviso, è che Bergoglio è stato abbastanza astuto da creare una certa immagine di sé negli ambienti che avrebbero poi avuto peso nel conclave: l’immagine dell’uomo umile, povero e pastorale. È così che si presentò a Roma negli anni precedenti al 2013, ed è così che si è presentato alle congregazioni generali. E i cardinali videro in lui l’uomo di cui la Chiesa aveva bisogno in quel momento. Secondo il suo primo biografo, Omar Bello, la strategia di Bergoglio è stata quella di giocare, non appena si è saputo delle dimissioni di Benedetto, a favore del prestigioso cardinale O’Malley. È stato un colpo da maestro: ha indicato la strada da seguire – un cardinale umile, preoccupato di ripulire la Chiesa da tutta la sua sporcizia morale – ma che non aveva alcuna possibilità di essere eletto perché era americano. Propiziare la candidatura di O’Malley significava propiziare la sua stessa candidatura. Era come dire: “La Chiesa ha bisogno di me”. Al momento giusto – il discorso alla congregazione generale prima del conclave – è “uscito dall’armadio” e ha presentato la sua candidatura: era lui che poteva prendere il posto di O’Malley perché ne condivideva gli stessi ideali. I cardinali hanno scelto quella che ritenevano essere la versione latina del cardinale americano.

Resta un mistero anche come Bergoglio abbia fatto a diventare gesuita. Dei gesuiti si può pensare qualsiasi cosa, ma sappiamo che in generale sono persone preparate, che hanno studiato. Bergoglio invece appare del tutto privo di “fondamentali”. E chi gli consentì poi di diventare arcivescovo e di costruirsi un’immagine tale da permettergli di diventare un papabile? Questi “misteri argentini” attendono ancora di essere svelati. 

Sì, questi sono certamente misteri. Non ho letto da nessuna parte perché abbia scelto di essere un membro della Compagnia e perché l’abbiano accettato. C’è da dire che in Argentina, come in tutto il resto del mondo, le scuole dei gesuiti erano per le classi medie superiori. Bergoglio apparteneva invece alla classe media degli immigrati.

Si dice che nel 1991 l’allora superiore generale della Compagnia di Gesù, l’olandese Peter Hans Kolvenbach (1928-2016), nel corso delle consultazioni segrete sulla possibile nomina di Bergoglio a vescovo ausiliare di Buenos Aires, scrisse una relazione nella quale rilevava a suo carico una serie di difetti: uso abituale di linguaggio volgare, doppiezza, disobbedienza nascosta sotto una maschera di umiltà, mancanza di equilibrio psicologico. Il testo della relazione non è mai stato reso pubblico, ma il suo contenuto è stato rivelato da un sacerdote che ebbe accesso alle carte prima che venissero fatte sparire dall’archivio dei gesuiti. Inoltre, nel libro Aquel Francisco (in italiano Gli anni oscuri di Bergoglio), scritto dagli argentini Javier Cámara e Sebastián Pfaffen con la supervisione del papa stesso e dedicato agli anni di maggiore isolamento di Bergoglio nella Compagna di Gesù, si narra che alcuni gesuiti fecero circolare la voce che egli fosse stato mandato in esilio a Córdoba “perché malato e pazzo”. Che cosa può dire su queste circostanze?

Tutto assolutamente vero. Sono un amico personale di quel sacerdote da più di trent’anni e sapevo di quella relazione molto prima che Bergoglio fosse eletto papa. Il rapporto è scomparso non solo dagli archivi della Compagnia di Gesù, ma anche da quelli della Congregazione per i vescovi.

Quanto al fatto che sia stato mandato a Córdoba perché “malato e pazzo”, credo che sia relativo. Fu mandato lì perché il nuovo provinciale, che era progressista, voleva così: in Argentina i gesuiti non volevano Bergoglio perché era conservatore e, come provinciale, era stato molto autoritario e aveva preso decisioni che non condividevano, come la vendita dell’Universidad del Salvador. La punizione fu quindi quella di mandarlo a Córdoba relegandolo a un oscuro incarico di studente confessore.

Mentre si trovava lì si ammalò: entrò in depressione e cominciò a contattare i vescovi conservatori dell’Argentina perché lo aiutassero a uscire da lì, e il modo per aiutarlo fu quello di fare pressione sul cardinale Quarracino, che era un conservatore, affinché lo nominasse vescovo ausiliare di Buenos Aires. E alla fine ci riuscì.

Un altro Quarracino, José Arturo, nipote del fu cardinale di Buenos Aires Antonio Quarracino (1923 – 1998) ha dichiarato che suo zio volle Bergoglio ausiliare di Buenos Aires, nel 1992, dopo che una persona, padre Ismael Quiles, uno dei maestri di Bergoglio nella Compagnia di Gesù, gli chiese di “salvarlo dal suo esilio”. Il futuro papa stava male, “sia spiritualmente sia psicologicamente”, ha detto José Arturo Quarracino. Ma perché scegliere come ausiliare della capitale un uomo che mostrava segni di instabilità? Che cosa convinse l’arcivescovo e il papa? E chi era padre Ismael Quiles?

Non credo che il cardinale Quarracino e il resto dei vescovi conservatori argentini abbiano visto segni di instabilità psicologica in Bergoglio. Lo so per esperienza diretta da uno di loro, che ora è morto: lo compiangevano e lo credevano un martire dei gesuiti, che erano progressisti e di sinistra. E Bergoglio ha fatto di tutto, durante il suo esilio a Córdoba, per mostrarsi come una vittima.

Credo che sia stato questo a spingere il cardinale Quarracino a sceglierlo come ausiliare, e a Roma non dovevano essere troppo preoccupati.

Padre Ismael Quiles era un noto gesuita negli anni Sessanta e Settanta. Di alto profilo, si dedicò soprattutto allo studio delle religioni orientali, in particolare del buddismo. Fu rettore dell’università gesuita di Buenos Aires. Era molto vicino a Juan Perón e scrisse per lui alcuni dei discorsi del presidente. E probabilmente era anche vicino al cardinale Quarracino: entrambi erano conservatori ed entrambi erano peronisti.

Possiamo dire che il modo di agire di Bergoglio è stato fin dall’inizio di tipo politico: sfruttare le occasioni, approfittare delle conoscenze. Poco o niente studio, poco o niente approfondimento dei temi teologici, morali, spirituali, liturgici. Solo gestione dei rapporti a fini di potere. Una tesi esagerata?

Sono assolutamente d’accordo. E le racconto un caso che illustra quanto lei dice: un collega professore di un’università argentina ebbe Bergoglio come insegnante quando era ancora negli anni della formazione nella Compagnia ed era “maestro” nella scuola Inmaculada de Santa Fe. Era un buon insegnante, insegnava loro la letteratura ed era molto legato ai suoi studenti. E il mio amico mi ha raccontato quanto segue: in un’occasione, parlando con lui e un altro studente, Bergoglio disse loro: “Diventerò papa”. All’epoca, il futuro Francesco aveva poco più di trent’anni anni. Ma era già sicuro del suo destino.

Direi che i casi sono due: o Bergoglio era in grado di fare profezie oppure aveva una grande concezione di se stesso! Un altro mistero. E a proposito di misteri, Omar Bello, nel libro El verdadero Francisco, scrive che se, com’è noto, nessuno sa che cosa c’è nel cuore di un gesuita, questo è tanto più vero per il gesuita Bergoglio. Secondo lei, che cosa c’è nel suo cuore? Me ne rendo conto: domanda difficile, forse impossibile. Ma credo che un tentativo di risposta possa arrivare solo dall’Argentina…

Conosco diversi aneddoti raccontati da persone che hanno conosciuto Bergoglio nella sua vita quotidiana. Alcuni non possono essere riferiti.

Cosa c’è nel cuore di Bergoglio? Solo Dio lo sa, perché nemmeno agli angeli è dato di conoscere l’interiorità dell’uomo. Possiamo solo fare delle ipotesi. A mio parere, Bergoglio è un uomo che non ha fede, o almeno non ha fede cattolica. Probabilmente crede in un Dio di tipo deista, ma non più di questo.

La mia ipotesi è che abbia perso la fede durante i suoi studi con i gesuiti e, allo stesso tempo, abbia acquisito le arti gesuitiche per amare il potere. È successo che per lui è diventata una malattia. Bergoglio è uomo di potere; l’obiettivo di tutta la sua vita, fin da studente, è stato quello di ottenere il massimo potere possibile, e per perseguirlo ha sacrificato tutto, anche i più elementari principi morali.

Allo stesso tempo, ha nutrito un profondo risentimento, che spiega la sua malvagità e la sua capacità di vendetta. E il bersaglio di tale risentimento è soprattutto colui che egli percepisce come elitario, socialmente o intellettualmente superiore. Ecco perché il suo odio si scatena contro queste persone.

Il contenuto del pensiero di Bergoglio non si segnala né per profondità né per originalità. La sua è una mente più portata alla gestione che alla speculazione intellettuale.   

Parlerei di intelletto puramente pratico. Anche quando prende in considerazione principi, dogmi e verità, lascia intendere che possono sempre essere superati dall’azione, cioè dalla volontà. In sostanza, non è altro che il volontarismo gesuita portato alla sua massima espressione: la volontà prevale sull’intelligenza; un riflesso del potere assoluto di Dio.

D’altra parte, a Bergoglio piace usare frasi brevi, che hanno un forte impatto sull’orecchio ma significano poco o nulla. Sono quelli che abbiamo chiamato “bergoglismi”. Una tattica tipica di ogni leader populista: i suoi seguaci la adotteranno senza riserve e senza sapere cosa significhi, e i suoi nemici troveranno difficile o impossibile contestarla, semplicemente perché non ha sostanza.

Il suo articolo La vía anglicana (15 agosto 2022) fotografa ciò che sta accadendo: la Chiesa cattolica sta seguendo i passi di quella anglicana verso l’autodistruzione. Ma com’è possibile che così pochi abbiano l’onestà e il coraggio di dirlo? Perché tutti fingono di non vedere? Concordo con lei quando dice che noi cattolici, rispetto agli anglicani che si convertivano, non abbiamo nemmeno la via di fuga di abbracciare Roma. Conosco almeno due amici che si sono fatti ortodossi, ma mi sembra una decisione presa per disperazione più che per convinzione. Fino a che punto dovremo precipitare?

Lei ha ragione: pochissime persone parlano onestamente di questo argomento, soprattutto tra coloro che dovrebbero parlare, cioè i vescovi. L’arcivescovo Viganò è stato certamente una piacevole sorpresa e ha riempito molti di noi di sollievo. Ma non sono in molti a parlare. In Argentina, abbiamo il caso di monsignor Héctor Aguer, arcivescovo emerito di La Plata, che ultimamente ha scritto molto.

La domanda è: perché fanno finta di non vedere? Innanzitutto, credo sia una questione di comodità. Non vedere è molto più facile che vedere, perché se si vede si deve parlare e agire di conseguenza. E prepararsi a essere rimproverati. Conosco diversi sacerdoti che, per aver parlato, sono stati mandati dai loro vescovi nelle case famiglia. E sappiamo qual è la punizione pontificia per i vescovi che parlano.

In secondo luogo, e credo che sia soprattutto questo il caso, penso che sia una questione di ideologia: l’ideologia del Vaticano II, il modernismo o come lo si voglia chiamare. È una questione di paraocchi che impedisce loro di vedere: non parlano perché non vedono, e non vedono perché non possono. Sono incapaci di interpretare la realtà.

Per quanto riguarda la seconda domanda, anch’io ho alcuni amici che sono diventati ortodossi. Ma non mi sembra la soluzione giusta, e non solo per motivi teologici. Il fatto è che la Chiesa ortodossa ha tanti problemi quanti ne ha la Chiesa cattolica romana.

Non credo che dovremmo prendere decisioni affrettate. Alla fine, chi sta lasciando la Chiesa sono i Bergoglio e i suoi. Quelli che rimangono nella Chiesa siamo tutti noi che manteniamo la fede degli apostoli. C’è il pericolo di finire in gruppi marginali, guidati da qualche guru, che finiscono sempre male. A mio parere, per il momento non dovremmo fare altro che quello che facciamo in base al nostro stato di vita, senza prendere decisioni affrettate.

Alcuni però sostengono che restare così vuol dire collaborare con il male e con l’apostasia, mentre occorre essere testimoni della Verità. Che ne pensa?

Si tratta di un dilemma che abbiamo discusso molte volte con molti amici. A mio avviso, la Chiesa si è trovata spesso in situazioni limite, e la soluzione non è mai stata quella di staccarsi. Riconosco che la situazione attuale è molto più grave di quelle precedenti, ma non mi sembra che la strategia – e sottolineo il concetto di strategia – sia quella di rompere con la gerarchia finché ci sono scappatoie per la sopravvivenza. È possibile che a un certo punto, nel prossimo futuro, la rottura con la gerarchia sarà l’unica opzione, e allora dovremo agire di conseguenza, ma mi sembra che non siamo ancora a quel punto.

 

 

 

 

Aldo Maria Valli:
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