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Dibattito / La benedizione delle case ieri e oggi

di don Mattia Tanel

Gentile Aldo Maria Valli,

da sacerdote vorrei provare a rispondere brevemente alla signora Liliana De Angelis che con molta discrezione e garbo sembrava avanzare una certa perplessità sulla benedizione delle case “su appuntamento”.

Quella della benedizione pasquale delle case è una santa pratica che rischiamo di sopravvalutare non certo nella sua importanza, quanto nelle modalità concrete attraverso cui ci siamo abituati a vederla esercitare negli ultimi decenni.

Ancora negli anni Quaranta-Cinquanta, cioè in tempi di clero relativamente numeroso e di fede “organica” alla vita quotidiana e sociale, la benedizione pasquale delle case era appunto… pasquale, cioè si svolgeva il giorno stesso di Pasqua, subito dopo la Messa grande, o al massimo durante l’Ottava.

Il sacerdote, accompagnato da uno o più chierichetti muniti di grandi ceste, percorreva con Rituale e secchiello le strade del suo villaggio o della sua parrocchia urbana, benedicendo dalla strada (cioè senza effettuare in quel momento alcuna visita) le case al cui uscio aperto le famiglie vestite a festa si erano precedentemente riunite per attendere lo spruzzo dell’acqua “nuova”, cioè benedetta nel corso della Veglia del giorno precedente. Le madri o i padri di famiglia incaricavano i figlioli di consegnare qualche genere alimentare come offerta al sacerdote: ecco il ruolo delle ceste, che sul finire del “giro” di benedizioni dovevano essere piuttosto pesanti.

Il tutto, a seconda della grandezza della parrocchia, prendeva al parroco e ai suoi vicari poche ore, o al massimo poche mattinate se la parrocchia era particolarmente estesa.

Si trattava, in fondo, di un servizio pastorale “su appuntamento”, visto che ogni anno questo gesto si ripeteva immutato anche nella sua tempistica ed era parte integrante delle consuetudini pasquali.

Per benedire, il sacerdote utilizzava l’apposito formulario latino tratto dal Rituale, brevissimo in quanto davanti a tutti gli usci la scena si ripeteva identica. Non c’era alcun bisogno di soffermarsi in eccessivi convenevoli, dato che il prete conosceva tutti, era da tutti conosciuto e i fedeli avevano appena presenziato come d’obbligo alla Messa grande nella loro stessa parrocchia. La benedizione pasquale veniva da tutti intesa per quello che essa è realmente, cioè un sacramentale, e non come una modalità di apostolato “di contatto” o simili.

Ci rendiamo facilmente conto che la benedizione “pasquale” a cui la pastorale postconciliare ci ha abituati ha poco a che vedere con la tradizionale benedizione pasquale. Ora essa inizia addirittura ben prima della Quaresima: non viene perciò utilizzata l’acqua benedetta nella Veglia pasquale. Inoltre, cosa più importante, essendo gradualmente venuto meno il legame organico tra i parrocchiani e loro sacerdoti, il fine pastorale (apostolico in pochi casi fortunati, altrimenti di semplice conoscenza o espressivo, come si dice, di “vicinanza”) tende a prevalere sul fine intrinseco della benedizione stessa, cioè impetrare da Dio per mezzo della Chiesa le grazie attuali per vivere l’anno da buoni cristiani con la grazia di Gesù Risorto. Altra differenza, le benedizioni pasquali hanno cominciato ad assumere un’importanza sempre maggiore non più per il sostentamento del sacerdote, ma per le stesse finanze parrocchiali.

Niente di male in sé, naturalmente: quello che conta è capire che ciò a cui siamo stati abituati negli ultimi decenni è qualcosa di diverso rispetto a ciò che accadeva in tempo di cristianità diffusa.

Venendo all’oggi, come gestire le benedizioni pasquali? Limitandoci all’Italia, le situazioni sono molto diverse a seconda delle regioni e dei contesti sociologici. In particolare nelle regioni urbane del Nord, il sacerdote che si dedica alle benedizioni rischia (e questo ben prima del Covid) di trovarsi di fronte non solo a una maggior percentuale di porte chiuse, ma anche a un enorme investimento di tempo, di fatica e di benzina protratto per tre-quattro mesi con frutti pastorali esigui. Anche chi apre la porta spesso non è praticante e accoglie la visita del sacerdote come una sorta di atto folkloristico o porta-fortuna, o, comunque, “che male non fa”. Insomma, molto spesso i parroci che hanno ancora lo stomaco di investire del tempo nelle benedizioni “a tappeto” (di fronte ai troppi “non siamo interessati, grazie”, credetemi, ci si sente un po’ Testimoni di Geova) lo fanno principalmente perché si trovano nella necessità di raggranellare il denaro necessario alla gestione economica delle troppe parrocchie loro affidate.

Altre situazioni e altre dinamiche, come dicevo, sono possibili. Ma se quello descritto rappresentasse il contesto della signora Liliana, come stupirsi che il parroco in questione abbia preferito risparmiare tempo e “andare sul sicuro” ricorrendo a un pragmatico foglio con cui poter stabilire una benedizione su appuntamento solo per chi effettivamente fosse interessato? In fondo si concordano appuntamenti con i fedeli anche per la direzione spirituale, per un colloquio particolarmente impegnativo o per la celebrazione di un Sacramento come il Battesimo di un nuovo nato.

Se il parroco della signora Liliana, operando in questo modo, fosse riuscito a risparmiare un po’ di tempo ad esempio per lo studio e per una migliore preparazione delle prediche e delle catechesi degli adulti (di cui nessuno sembra lamentare la scomparsa, eppure la sistematica formazione cristiana degli adulti è per un pastore d’anime un dovere di stato ben più grave del “giro” annuale delle benedizioni), sarebbe tutto di guadagnato per lui e per i veri fedeli.

Si tende oggi a dimenticare che i veri fedeli, appunto, cioè i credenti e praticanti, meritano dalla Chiesa e in particolare dai sacerdoti in cura d’anime di più e di meglio dei cosiddetti “lontani”, cioè dei battezzati indifferenti. Ma questa è una verità difficile da digerire, nel momento in cui persino “il culmine e la fonte” della vita della Chiesa, cioè la liturgia, è stata riformata per essere facile, edulcorata e alla portata di tutti, al prezzo di risultare vuota per chi cerca la profondità spirituale e l’adorazione di Dio.

 

don Mattia Tanel

Aldo Maria Valli:
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