Lettera / Ancora sulla messa funebre per Costanzo

Caro Aldo Maria Valli,

a proposito del recente funerale di un noto conduttore televisivo, condivido molte perplessità espresse dalla lettrice De Angelis sulla spettacolarizzazione della cerimonia funebre, divenuta spesso un vanesio “sipario” utile a celebrare l’uomo anziché Dio.

La lettrice, giustamente, lamenta lo “scempio” perpetrato in tale messa mediatica e ritiene di aver preso consapevolezza della profanazione in atto anche grazie alla partecipazione alla messa tridentina. Vorrei rassicurare la lettrice: anche per me, abituale frequentatore della messa postconciliare, certe cerimonie rappresentano uno scempio.

Recentemente ho partecipato a una messa funebre (cattolica) in cui i canti erano affidati ad un coro gospel e non avevano nulla di liturgico (veniva persino cantata Hallelujah di Cohen): in questo caso non me la prendo con i parenti, spesso ignari della profanazione in atto, ma con i sacerdoti, che sanno (o dovrebbero sapere) e non si oppongono.

Trovo al pari assai discutibile l’abitudine, ormai invalsa, di omelie incentrate sulle (spesso presunte) virtù o sulla carriera del defunto o dei discorsi tenuti da parenti e amici perfino prima che la cerimonia sia terminata. Sembra quasi che si debba convincere il Padre Eterno che il de cuius abbia meritato la salvezza che non può essergli negata.

Quando lascerò questa terra spero tanto che il celebrante non faccia alcun accenno alle mie (invero inesistenti) virtù, ma chieda perdono al Padre per le mie tante mancanze affinché con la Sua infinita misericordia possa rimettere i miei peccati e accogliermi nel suo Regno.

Molti hanno contestato la cerimonia funebre anche perché il noto giornalista si era dichiarato in passato ateo. Mi ha colpito, tuttavia, la dichiarazione di un suo amico che ha raccontato che poco prima di morire gli abbia chiesto di recitare con lui un’Ave Maria.

Mio padre riteneva che l’ateo che diviene credente prima di morire non fa altro che aggrapparsi disperatamente all’unica possibilità di vita che gli rimane: quella ultraterrena. Non sarebbe un vile, come comunemente si crede, ma un inguaribile ottimista, visto che, non solo crede possa succedere ciò in cui non crede, ma pensa anche che nell’aldilà nessuno abbia fatto caso alle sue spacconate nell’al di qua.

Battute a parte, spero che il giornalista abbia davvero vissuto un’esperienza di conversione e che, come gli operai chiamati a lavorare nell’ultima ora nella Vigna del Signore, abbia accettato l’invito e abbia ricevuto la ricompensa.

Vincenzo Rizza

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