Fernández alla Dottrina della fede. L’autogolpe. Ma sarà anche autogol?

Come abbiamo abbondantemente scritto nei giorni scorsi [qui e qui], la nomina del nuovo prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, l’arcivescovo argentino Víctor “Tucho” Fernández, è una sciagura sotto ogni punto di vista. Ma almeno contribuisce a fare chiarezza: chi ha sempre parlato, contro ogni evidenza, di continuità fra il pontificato di Benedetto XVI e di Francesco ora davvero non ha più argomenti. La nomina di Fernández sancisce una frattura totale. Attenzione: parlo di frattura non solo e non tanto fra due tipi di teologia, ma fra una teologia e una non-teologia. Perché una teologia di Tucho Fernández non c’è: non c’è un pensiero strutturato, non c’è una linea interpretativa. C’è solo un coacervo di espressioni che cedono da una parte a un vago sentimentalismo e dall’altra al più spudorato relativismo. Qualcuno ha detto che mettere Tucho a capo dell’ex Sant’Uffizio è come nominare il lupo a capo del gregge. Ma Tucho non ha neppure la grandezza del lupo. È liquidità, è il nulla che avanza.

Dunque, rottura totale con il passato. Alla buonora! Era tempo che la frattura fosse sancita, andando oltre le finzioni e le frasi di circostanza. Ora che il “nonno saggio”, alias Ratzinger, non c’è più, Francesco ha fatto ciò che aveva in animo da tempo e ha installato il suo protetto proprio nel palazzo in cui per tanti anni il cardinale Ratzinger lavorò come guardiano dell’ortodossia cattolica, così come tanti altri avevano fatto prima di lui. Ma, ripeto, non si può parlare di cambio di rotta, perché Tucho Fernández una rotta non ce l’ha, a meno che non si voglia considerare un progetto la completa destrutturazione del pensiero cattolico, della stessa visione cattolica dell’uomo e del mondo. Più corretto è parlare di fine di ogni rotta.

Nel mio libro Il pastore e i lupi. Ricordando Benedetto XVI, sfatando la leggenda del sereno soggiorno di Ratzinger nella quiete del monastero Mater Ecclesiae, scrivo che quei dieci anni da papa emerito furono una via dolorosa. La scandirono le ambiguità di Amoris laetitia, la mancata risposta di Francesco ai dubia dei quattro cardinali, la correctio filialis sottoscritta da decine di teologi e studiosi ma bellamente ignorata da Santa Marta. La scandì il duro colpo di Traditionis custodes. “Di fronte a ogni passo di Francesco, a ogni nuova iniziativa del suo successore, Benedetto XVI poté misurare il baratro nel quale la Chiesa stava sempre più sprofondando. E poté vedere che il processo di autodissoluzione, innescato dal Concilio, era stato condotto alle estreme conseguenze proprio dalla sua rinuncia. Si può immaginare una condanna più terribile?”.

Questa la situazione. Altro che “nonno saggio”, inchini, abbracci e sorrisi. Francesco ebbe per lo meno il buon gusto di risparmiare a Benedetto l’ultimo dolore e l’umiliazione più cocente: appunto mettere uno come Tucho Fernández a capo dell’ex Suprema. Ma ora che Benedetto non c’è più, semaforo verde: la liquidità può trionfare, il campione della non-teologia può salire al potere. Missione compiuta.

Se Tucho Fernández, il ghost writer di Amoris laetitia e l’ispiratore del programma del pontificato, l’Evangelii gaudium, incarna agli occhi di Bergoglio l’uomo giusto per guidare il Dicastero per la dottrina della fede è proprio perché una dottrina non ce l’ha, e la sua fede ben difficilmente si può definire cattolica. Il cardinale Müller non esitò a definirlo eretico, ma forse gli fece un complimento. Un eretico ha un’idea, ha una visione della dottrina e della fede. L’autore del libro sull’arte di baciare non ha nulla di tutto ciò. Francesco, dunque, con questa nomina dice: basta con la teologia, è tempo di non-teologia, basta con la Chiesa, è tempo di non-Chiesa. La lettera con la quale ha accompagnato la nomina è chiara: Tucho non dovrà perseguire gli errori dottrinali (“mi aspetto da te qualcosa di molto diverso”) perché non ci sarà più dottrina.

Chi in queste ore analizza la nomina di Tucho continua a ragionare nei vecchi termini: un innovatore al posto di un conservatore, un morbido al posto di un duro. Ma ormai siamo oltre. Ciò che Francesco vuole è la fine di ogni punto di riferimento.

Secondo The Wanderer, che conosce molto bene sia Bergoglio sia Fernández, questa nostra lettura attribuisce a Francesco una grandezza che egli non ha. In realtà, sostiene il commentatore argentino, Bergoglio ha nominato Tucho solo per ripicca, perché il Vaticano non voleva mettere il suo protetto a capo dell’Università Cattolica di Buenos Aires e poi perché Müller si permise di dargli dell’eretico. Nessun progetto, dunque, ma solo rancore. Può darsi. In ogni caso, qualunque sia il vero motivo all’origine della scelta, è fuori discussione che Bergoglio in questo modo ha scavato un fossato tra il prima e il presente. Qui siamo all’autogolpe. La Chiesa che nega se stessa. Una specie di HIV, come giustamente osserva The Wanderer. Una malattia autoimmune che distrugge l’organismo.

L’autogolpe sarà anche un autogol? Lo vedremo. È possibile che, a fronte di tale tracotanza, anche i cardinali classificati come progressisti avvertano un moto di repulsione e, se non altro per istinto di conservazione, decidano nel prossimo conclave di mettere rimedio alle malefatte bergogliane. Comunque sia, ora siamo alle prese con la manifesta disarticolazione della Chiesa. Prendiamone atto.

A.M.V.

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