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“Scrutami, Signore, e tentami”. Parola della Bibbia. Inutile addolcire

di Investigatore Biblico

Studiando il Salmo 26 ho trovato un particolare molto interessante, trascurato tanto nella Bibbia Cei 1974 quanto nella 2008. Lo approfondirò in questo articolo, anche se saranno necessarie ulteriori indagini.

Il versetto in esame è il 26,2, di cui metto a confronto le diverse traduzioni.

Cei 1974: “Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente”.

Cei 2008: “Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente”.

Vulgata e Nuova Vulgata: “Proba me, Domine, et tenta me; ure renes meos et cor meum”.

Testo masoretico: “Bechanèni, Adonaj, wenassèni…”.

Settanta: “Dokimasòn me, Kùrie, kaì peìrason me…”.

Il termine ebraico wenassèni deriva da nasah che significa “provare”, ma anche “tentare”.

Il termine greco peìrason deriva da peìrazo: è lo stesso che si trova in Matteo 4,1-11; Marco 1,12-13; Luca 4,1-13 (le tentazioni di Gesù).

In questo caso sia Cei 1974 sia Cei 2008 hanno tradotto con “tentazione” e non con “mettere alla prova”. Eppure, seguendo le traduzioni antecedenti (Settanta e le due Vulgate), la traduzione corretta sarebbe: “Scrutami, Signore, e tentami”.

A mio parere la Cei 1974 pecca, come la 2008, di eccesso di prudenza. Il re Davide dice chiaramente ed esplicitamente al Signore: “Tentami”. Ma i traduttori hanno preferito ammorbidire ricorrendo al più educato “mettere alla prova”.

Questo eccesso di prudenza ci riporta, in parallelo, a una questione che abbiamo già affrontato: la nuova traduzione del Padre nostro.

Guarda caso, anche nel passo del Padre nostro compare il verbo peìrazo. Quindi l’errata traduzione sta in quel “non abbandonarci” che esce completamente dal seminato, a differenza di un molto più corretto, sebbene non del tutto, “metterci alla prova”.

Si sostiene che Dio non può indurre in tentazione nessuno, e qui parte il dibattito teologico. Tuttavia, se il testo originale dice “non ci indurre”, mi verrebbe da osservare: lasciamo l’antica traduzione in pace.

Nel Salmo 26 è proprio il re Davide a chiedere al Signore di essere tentato. Davide (santo che ricordiamo il 29 dicembre) ben sapeva quello che chiedeva. Conosciamo Davide come re, guerriero, cantore, ma poco come mistico. I Salmi ne evidenziano questo aspetto.

Per quanto mi riguarda, figuriamoci se chiedo al Signore di mandarmi una “tentazione”! Ne ho già abbastanza! Ma certamente nel Padre nostro chiedo al Signore di “non indurmi in tentazione”, perché non sono un santo come re Davide e altri.

Domanda cruciale: che cosa c’è di scandaloso nel pensare che Dio possa indurre in tentazione? La tentazione non è altro che una prova come un’altra.

Nel Vangelo delle tentazioni Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato da Satana”. È lo Spirito che conduce Gesù nel deserto perché sia tentato.

La parola di san Giacomo, usata da chi giustifica il nuovo Padre nostro, non è per nulla in contraddizione con la vecchia traduzione della preghiera insegnata da Gesù. Infatti, in Giacomo 1,13-15 leggiamo:

Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte”.

Che cosa intende dire san Giacomo? Di certo Dio non può volere il nostro male, perché Dio è il bene assoluto, e il male proviene esclusivamente dal demonio. Ma se Dio permette al demonio di tentarmi, è perché vuole la mia conversione e la mia santità. Dio permette che io sia tentato e lo fa per un mio bene maggiore, perché mi vuole santo. In quella tentazione io posso restare attaccato a Lui. Perché senza di Lui cado continuamente.

Il discorso andrebbe approfondito, ma penso di aver toccato i punti essenziali.

Fonte: investigatorebiblico

 

Aldo Maria Valli:
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