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Lettera di una professoressa / Il mio 8 marzo alternativo, tra slogan preconfezionati e Lorenzo de’ Medici

di Alessandra Alessandrini

Caro Valli,

desidero condividere con lei e i lettori di Duc in altum qualche riflessione che ho avuto modo di interiorizzare lo scorso 8 marzo tra i banchi e le riunioni della scuola in cui insegno.

Dunque, venerdì 8 marzo, come ogni venerdì, preparo il mio zaino con l’agenda e gli appunti delle lezioni che dovrò tenere.

So che oggi mi aspetta una giornata intensa: in classe fino alle 13:45, poi consigli di classe dalle 14 alle 19.

Inoltre, sono consapevole che a rendere tutto ancor più sfidante, e allo stesso tempo stancante, è il probabile scenario che si aprirà davanti ai miei occhi: ai molteplici cartelloni dipinti, scritti e firmati da ragazze e ragazzi a favore e in ricordo di Giulia Cecchetin, si aggiungeranno slogan, inni, auguri e riflessioni metafisiche sulla donna e su quei diritti tanto sostenuti da alunne, alunni, colleghe, colleghi eccetera.

Mi armo, quindi, di santa pazienza e oltrepasso l’ingresso dell’istituto con un obiettivo specifico: seminare la bellezza della Verità con la storia e la filosofia, al di là di questa ricorrenza intrinsecamente contraddittoria.

Entro in Terza liceo (una classe composta da sole ragazze).

Oggi parliamo di Lorenzo de’ Medici: “Quant’è bella giovinezza che ti sfugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia, del domani non v’è certezza”. Questi versi sembra piacciano alle studentesse: una vita senza freni, fatta di lussi e sfarzi, in preda al proprio “ventre”, alle proprie fantasie, al proprio “mi sento di far questo o quello”.

Eh sì: il sentimentalismo fa spesso breccia nei cuori degli adolescenti; pertanto anche questa volta decido di andare oltre il piano previsto per la lezione, mostrando loro la schiavitù che il sensazionalismo provoca.

“Mi sembra di capire che vi piaccia la vita di Lorenzo de’ Medici? Sbaglio?”

“Beh… sì prof… Bella una vita così!”

“Bene…” (lunga pausa) “Sono stabili le emozioni secondo voi?”

“No prof! Assolutamente no!”

“Bene… e allora cos’è l’amore?”

“E’ essere innamorata… o meglio, è essere innamorati” dice Emanuela.

“Cioè prof, dipende… è stare bene con una persona!” aggiunge Federica.

Infine Laura: “Boh, prof! Secondo me l’amore non esiste… io non credo nell’amore!”

Mi sento il cuore sciogliersi, ho compassione e tenerezza davanti a questa gioventù che, proprio come il Magnifico, ha dato in pasto ai vizi il desiderio di quella Pienezza che è il fine dell’esistenza.

“Ragazze, e se vi dicessi che l’amore è una scelta e l’innamoramento una fase dell’amore stesso?”

“In che senso, prof?” chiede Isabella

“Ma innamoramento e amore sono la stessa cosa, prof” sussurra Angelica.

Mentre passo tra i banchi, chiedo: “Desideri avere accanto un uomo che ti scelga per sempre, che combatta per te, che ti custodisca, che riconosca la tua debolezza, che la completi, che la supporti o un uomo che, in balìa delle proprie emozioni, ti usi e poi ti lasci? Che tipo di amore desideri? Un semplice innamoramento che dura qualche mese, massimo un anno o un amore che ti dica: io ci sono, camminiamo insieme verso una meta nonostante i difetti, le crisi di pianto, gli sbalzi ormonali, le delusioni, le ferite e le imperfezioni di entrambi; finché morte non ci separi? Un amore come quello dei nonni o bisnonni che dura al di là dell’instabilità delle emozioni, o ti accontenti di molto meno? Che uomo desideri per te? Un uomo senza coraggio e con il gel disinfettante nelle tasche della vita o un uomo virtuoso cioè coraggioso, forte, capace di custodia, coerenza e sicurezza?”

La classe è in silenzio. Alcune di loro mi guardano, mi osservano e poi abbassano gli occhi, altre iniziano a mangiarsi le unghie o a muovere nervosamente la gamba. Altre ancora guardano il vuoto e alcune si commuovono mentre si toccano le punte dei capelli.

Sguardi feriti, emblema di una femminilità illusa, distorta, strumentalizzata. Una fragilità mercanteggiata e un vuoto esistenziale senza un fine, se non quello dell’autolesionismo o dell’autodistruzione.

“Siate donne; ma veramente! Non svendete né il vostro corpo né la vostra anima! Il vostro, nostro, più sacro fine è avere un vero uomo al nostro fianco, un uomo capace di coraggio: non un Lorenzo Dd’ Medici o un Fedez dei nostri giorni, ma un san Luigi dei francesi. Guardate i vostri nonni e, se hanno una relazione stabile, mirate a quell’esempio poiché lì c’è il senso dell’Eterno, del Vero, della Pienezza che state cercando!”.

“Sapete di che cosa è morto il Magnifico?”

“Infarto? Omicidio? Peste?” Chiedono in tante.

“No. Di gotta, vittima dei suoi stessi vizi; un po’ come quei rapper o influencer che si tolgono la vita o muoiono di overdose poiché insoddisfatti”.

Mi guardano con intensità. Sono spiazzate.

Forse hanno colto l’inganno e la schiavitù di quelle mimose; spesso frutto di una relazione poco virtuosa.

Suona la campanella, c’è la ricreazione.

Ci scambiamo sguardi di complicità. Essere donna oggi richiede molto più dei diritti o di qualche fiore qua e là; proprio perché il problema è che il femminismo ha de-virilizzato gli uomini e distrutto la donna.

La giornata prosegue e i corridoi sono pennellati di “auguri!”, “auguri donne, sempre in prima linea eh!”, “auguri a noi!” eccetera.

Un sorriso amaro compare sul mio volto: penso alle vere radici, marxiste, di tutta ‘sta storia che puzza di mimosa: quel marxismo che ci ha ingannate, rovinate, che ci ha trasformate in macchine, che ha negato e continua a negare il nostro grembo, la nostra fecondità, la nostra maternità e, quindi, la nostra sacralità. Quel comunismo che ci ha slegate dall’uomo attraverso il divorzio o che, parificandoci all’uomo stesso, ci ha svestite, umiliate, denudate, svendute; alimentando così la proliferazione di un’Eva ribelle e autonoma, ma intrinsecamente triste che ha le monoporzioni dell’Esselunga nel frigo e un chihuahua come partner.

Ore 16:15. Il consiglio di classe della quinta liceo è convocato in un’aula del terzo piano.

Entro, prendo posto e sistemo il cappotto in attesa che inizi la riunione. Alzo lo sguardo verso la lavagna. Una scritta: “Vogliamo mimose e più diritti”.

Le colleghe e i colleghi, inclusa quella di religione cattolica, commentano con orgoglio e soddisfazione i frutti dell’istruzione dominante.

Mi guardo attorno: otto docenti su dieci sono donne; due su dieci hanno la fede al dito; gli altri (over 40/50) sono single o separati.

Osservo i frutti socialmente tangibili dello slogan che campeggia sulla lavagna e penso a Maria, a san Giuseppe, alla sacra famiglia: pochi diritti, poche emozioni scintillanti, molta responsabilità, molta sofferenza e molto Amore.

All’odore sgradevole di quelle mimose dal tono rosso-marxista desidero anteporre gli sguardi delle ragazze di terza: anime sofferenti, ma che non negano la Verità e si lasciano toccare da essa.

Forse un po’ di speranza c’è. Sì, proprio nelle generazioni nascenti, poiché quelle passate, ormai, dopo aver contribuito al crollo umano, sociologico e spirituale a cui stiamo assistendo, hanno ancora le mani ricolme di mazzi a mo’ di “coccarde giacobine” che odorano di liberté e, negando le virtù proprie dell’uomo (forza, coraggio, sincerità e onore), hanno distrutto la vera essenza delle donne che è essere figlie, mogli e madri.

Sera inoltrata. La giornata volge al termine. Mentre torno a casa mi viene in mente un passo del Qoèlet (4, 9-12):

Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto.

Mi faccio cullare da questi versetti e prego per un mondo migliore: meno femminista e più cristocentrico, con meno single e più famiglie, con meno aborti e più figli, con meno animali domestici e più formati-famiglia nei frigoriferi, con meno mimose e più rosari, con meno fragilità e più coraggio, con meno donne in cattedra e più docenti uomini, con meno maschi impauriti dalla vita e più uomini virtuosi, con meno donne indipendenti e più mogli sottomesse (in senso cattolico) ai propri mariti.

In breve, un mondo con meno menzogna e più Verità, con più Vita e meno morte.

Aldo Maria Valli:
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