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America Latina. Molti cattolici, molti poveri. C’è un legame? Un saggio sul rapporto economia-religione

“Il problema per Bergoglio e per la cultura economica del cattolicesimo argentino è la prosperità. Secondo il papa, mentre la povertà preserva la purezza morale e la religiosità del popolo, la prosperità lo corrompe e lo secolarizza”. Scrive così lo storico italiano Loris Zanatta (docente di Storia dell’America Latina e direttore del master in Relazioni internazionali Europa-America Latina dell’Università di Bologna) nel suo nuovo libro, pubblicato in spagnolo, El papa, el peronismo y la fábrica de pobres (edito da Libros del Zorzal) nel quale indaga sul ruolo del cattolicesimo nelle “robuste radici della povertà argentina e latinoamericana” partendo dalla premessa che la storia economica non può essere separata dalla storia religiosa.

Guardando a un continente come l’America Latina che, come dice papa Francesco, ha “molti cattolici e molti poveri”, Zanatta si chiede: esiste un legame tra povertà e religione, o almeno tra la povertà e il tipo di cattolicesimo che si è affermato in Argentina? È davvero possibile lo sviluppo in un Paese che venera la “santa povertà”?

In El papa, el peronismo y la fábrica de pobres, l’autore afferma che alcune dinamiche diffuse in Argentina, come “autarchia, pauperismo, paternalismo, assistenzialismo, familismo e clientelismo”, hanno un’origine culturale nella quale la religione cattolica gioca certamente un ruolo determinante.

Bergoglio e la Chiesa hanno perso la voce nel denunciare lo “scandalo della povertà”, la vergogna degli “scartati”, la drammatica emarginazione di una parte crescente della società. La fabbrica dei poveri sembra essere l’unica che produce a pieno regime: come si spiega?

Del fenomeno la Chiesa incolpa governi di ogni tipo e colore, la “classe dirigente”, lo “sfruttamento imperialista”, l’individualismo e l’egoismo. Tutto e tutti. Dal pulpito delle feste nazionali, nei documenti delle assemblee episcopali, nelle dichiarazioni della pastorale sociale piovono denunce e accuse, critiche e condanne. Tuttavia, nessuno pensa mai di fare un piccolo ma logico passo avanti: se ci sono tanti cattolici e tanti poveri, non può esserci un legame tra le due cose? C’è un legame tra storia religiosa e storia sociale, fede ed economia, povertà e cattolicità?

Sono domande retoriche: è ovvio che il legame esiste, come potrebbe non esistere? Nessuno dovrebbe saperlo meglio di Bergoglio, che invoca sempre la “cultura del popolo” per celebrarne le virtù. Nella visione del papa argentino, il mitico popolo conserva una morale cristiana semplice e genuina. È solidale, comunitario, altruista. È un popolo puro. Tuttavia, la stessa cultura che in cinque secoli di cristianesimo ha seminato così tanti doni non affermerebbe mai di essere responsabile delle piaghe. Povertà e disuguaglianza, corruzione e illegalità non sono mai attribuite all’eredità storica cristiana, ma a una élite corrotta soggetta a ideologie straniere. Insomma, se le radici delle virtù sono nell’humus cattolico del passato ispano-americano, quelle dei difetti affondano nel giardino dei vicini. Ma questa non è forse una lettura di comodo, manichea, auto-interessata, ideologica? Se c’è tanta povertà, si dice, l’eredità cattolica non c’entra. Ecco perché la Chiesa cerca colpevoli e capri espiatori ovunque tranne che in casa propria.

Va da sé che il problema non è trovare cause univoche per problemi complessi, di cercare colpevoli ed erigere forche. Ma si tratta di mettere le cose al loro posto, di cercare le radici solide della povertà argentina e latinoamericana nella propria storia e nella propria cultura, non in quelle degli altri. È una questione di buon senso: il primo passo per individuare i tabù culturali e gli ostacoli istituzionali che ne causano la riproduzione e ne impediscono lo sradicamento. Finché si cercheranno le cause nei complotti dei “potenti”, nelle ingiustizie del “sistema”, nelle speculazioni della “finanza”, come tende a fare Bergoglio, si continuerà a raccogliere l’acqua con un setaccio, a guardare la pagliuzza nell’occhio di qualcun altro per non vedere il ramo nel proprio.

Sul rapporto tra cultura ed economia, sull’influenza decisiva che le idee hanno sulle condizioni economiche, non ci dovrebbero essere dubbi. Se un evento tragico distruggesse completamente un sistema produttivo e allo stesso tempo salvasse la popolazione che lo ha creato, osservava Karl Popper, le sue “idee” e la sua “cultura” gli permetterebbero di ricostruirsi. Ma se accadesse l’opposto, se le macchine e le fabbriche si salvassero ma la popolazione morisse, la popolazione che subentrerebbe non saprebbe che farsene di entrambe se non avesse la cultura e le idee in grado di farne tesoro.

Né si può dubitare dell’influenza decisiva delle tradizioni religiose delle diverse civiltà sui valori e sulle istituzioni economiche. Le varie declinazioni della teoria della secolarizzazione, così diverse per molti aspetti, concordano su questo punto. C’è stato un legame tra l’etica protestante e la nascita del capitalismo, per usare l’espressione di Max Weber, e c’è un legame diretto tra l’espansione del capitalismo e il grande arricchimento globale degli ultimi due secoli: basta guardare la mappa dei Paesi che hanno avuto più successo nell’uscire dalla prigione della povertà. Perché l’Argentina non ha seguito le orme del Canada o dell’Australia? Una questione economica o una questione di cultura?

Un tempo la povertà era la norma, un destino scritto per tutti o quasi. Da allora, osserva Angus Deaton, è iniziata la “grande fuga dalla povertà”, una fuga in cui alcuni hanno successo ma altri falliscono. Ciò pone una domanda: perché è più facile sfuggire alla trappola della povertà in alcuni contesti culturali mentre è quasi impossibile in altri? Molto, appunto, dipende dalle diverse culture e quindi anche dalle diverse storie religiose. Sebbene oggi il welfare abbia indebolito l’etica capitalista nei Paesi protestanti, è evidente che alcune tradizioni spirituali sono più inclini di altre allo sviluppo economico, più tolleranti o meno resistenti ad atteggiamenti economici che altri considerano sospetti per motivi morali.

I Paesi dell’Asia orientale e persino alcuni Paesi islamici, osservano molti studiosi, non trovano nel nucleo etico della loro fede ostacoli insormontabili all’arricchimento, alla mobilità sociale, al successo personale, alle attività commerciali o finanziarie. I soli fattori strutturali, senza aggiungere quelli culturali, non basterebbero a spiegare perché nei cicli economici favorevoli l’economia latinoamericana cresce di circa il 3%, mentre le tigri asiatiche fanno un balzo del 9%, perché quando la prima ristagna loro continuano a crescere, perché l’Asia infinitamente più dell’America Latina ha contribuito alla drastica riduzione della povertà mondiale negli ultimi quarant’anni.

La religione conta. Influisce sull’atteggiamento verso il denaro, il commercio, il credito, il consumo, il mercato, la disuguaglianza, le banche, lo Stato, il rapporto tra individuo e comunità, cittadino e istituzioni, libertà e obbedienza, creatività e ossequio. Non considerare la sua influenza nell’affrontare il problema della povertà in America Latina significa essere ciechi, avere un elefante in casa e far finta di niente. Se la povertà è così “strutturale”, come spesso si sente dire, se è così resistente agli sforzi (che altrove funzionano) per sradicarla, ai piani sociali e ai progetti educativi, alle riforme urbane e agli incentivi di ogni tipo, non ci sono anche ragioni culturali?

Ebbene, la cultura, in America Latina e specialmente in Argentina, come insegna il papa, è cattolica. A dire il vero, per essere precisi, gli esponenti della teología del pueblo sono inclini a rivendicare l’esclusività della “cultura del popolo” e a cancellare qualsiasi altro contributo culturale alla storia latinoamericana. In ogni caso, non c’è dubbio che la cultura cattolica prevalga nettamente e che più di ogni altra abbia plasmato la mentalità economica latinoamericana, vale a dire il rapporto con il commercio e il denaro, con la produzione e il consumo, con la ricchezza e la povertà, con il lavoro e l’ozio. E così via.

Quindi, per capire questa mentalità, per capire se e come ha influenzato l’economia argentina e regionale, e come continua a farlo, è essenziale analizzare il pensiero cattolico sull’economia. E ancor più del pensiero, l’approccio morale, l’insieme di valori e tabù che, consolidati nei secoli, sono diventati gradualmente senso comune. A patto, naturalmente, e questo è un punto chiave, di evitare astrazioni fuorvianti. Non esiste un rapporto standard, ideale o tipico, uguale sempre e ovunque, tra dottrina cattolica ed economia. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di specificarlo. Questo rapporto cambia ovviamente a seconda dei contesti storici, sociali, istituzionali e, appunto, culturali.

Per essere ancora più chiari: un cattolico olandese, per citare un esempio a caso, tenderà ad avere idee e comportamenti economici molto diversi da quelli della maggior parte dei cattolici argentini e molto più simili a quelli di un protestante del suo Paese. Anche se fanno riferimento alle stesse scritture e alle stesse encicliche, è inevitabile che, a causa della loro storia e della loro esperienza, a causa del contatto o meno con altre idee e altre culture, il cattolico argentino e il cattolico olandese sviluppino mentalità diverse riguardo al confine, in ambito economico, tra ciò che considerano morale o immorale, lecito o illecito, opportuno o inadeguato.

Se vogliamo capire cosa alimenta la “fabbrica dei poveri” argentina, non serve un manuale di dottrina sociale della Chiesa disincarnato, avulso dalla storia, valido per tutti i luoghi e tutte le stagioni. Occorre guardare a esperienze e persone concrete che affondano le radici nel cristianesimo europeo antico e medievale, sviluppatosi sotto la Corona spagnola, invocato in epoca repubblicana per esigere la fusione tra nazione e religione, popolo e fede, teologia ed economia. Il tipo di cultura cattolica plasmato da questa storia ha diverse caratteristiche in comune con il cattolicesimo universale, ma anche marcate peculiarità. Queste peculiarità sono importanti, ma per capirle è necessario partire da lontano. Le fondamenta dell’industria della povertà argentina sono più profonde di quanto spesso si pensi.

Fonte: infobae.com

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Aldo Maria Valli:
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