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Intra claustra monasterii / Perché l’attacco alla vita monastica

di Rita Bettaglio

Nel 2016 papa Francesco promulgò la Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, specificamente sulla vita contemplativa femminile. A questa seguì, nel 2018, l’Istruzione applicativa Cor orans. 62 pagine la prima, 108 la seconda e, come dice il Salmo, tutte fatica e dolori.

Da allora sono scorsi fiumi d’inchiostro, ma soprattutto di lacrime, conseguenti l’applicazione dei desiderata, o meglio diktat, pontifici in essi contenuti.

Lacrime di claustrali, di donne che hanno scelto di lasciare il mondo e ritirarsi nel silenzio e nella preghiera per lodare Dio, intercedere per tutti e riparare le colpe proprie e altrui. La punta di diamante della Chiesa, da sempre. Donne che hanno innestato la propria vita nel tronco millenario del monachesimo occidentale, in quella tradizione orante che ieri come oggi irriga la Chiesa.

Rimandiamo la disanima di questi documenti a testi qualificati, come l’agile Claustrofobia [qui] di Aldo Maria Valli. Mi limito alle riflessioni di un cristiano qualunque.

Vultum Dei quaerere e Cor orans, il suo braccio armato, sono un pesante attacco alla vita claustrale femminile. Anzitutto mi domando: perché quella femminile? Quella maschile è forse ininfluente o fa meno (o più) paura?

Non che la vita contemplativa femminile sia arrivata al 2016 in perfetta salute, ma questi documenti, con la loro smania di aggiornamento, condivisione, comunicazione, sono realmente il colpo di grazia.

Centro della questione, spina irritativa (assai irritativa!), alla radice di questi provvedimenti dai toni impositivi, è l’autonomia dei monasteri. Autonomia antica e radicata, che costituisce l’ossatura stessa del monachesimo, specie benedettino, insieme alla stabilitas.

Autonomia e stabilitas sono, per così dire, un combinato disposto che in effetti può dare notevoli grattacapi a chi volesse uniformare e appiattire la vita monastica, rendendola un’esperienza ecclesiale qualunque.

Autonomia e stabilitas, infatti, favoriscono la crescita di rapporti profondissimi con Dio e con le sorelle, l’instaurarsi di una maternità o paternità spirituale che fa paura al mondo liquido di oggi.

I monasteri sono la casa sulla roccia, governata dall’abate (o abbadessa) che, come dice san Benedetto nella Regola, tiene il posto di Cristo, buon Pastore. Non è un caso che abati e abbadesse abbiano diritto all’uso della croce pettorale e del pastorale.

Mi sia qui consentita una filiale e devota domanda: Madri, dov’è finito il vostro pastorale? Esso serve per governare il gregge e per difenderlo dall’attacco dei lupi, specie se travestiti da agnelli. Lucidatelo e tiratelo fuori, spiegate al mondo e a tutti a cosa serva il ricciolo che lo sovrasta… e difendete anche noi che dipendiamo dalle vostre preghiere.

San Benedetto, nel primo capitolo della Regola, De generibus monachorum, definisce i cenobiti, quelli che vivono sotto una regola e un abate, fortissimum genus, stirpe fortissima. Dal VI secolo lo hanno dimostrato in mezzo a ogni difficoltà: ovunque andassero, i monaci davano nuovamente vita a quella che madre Ildegarde Cabitza, badessa di Rosano, ebbe a definire “il tipo ideale della perfetta società cristiana, dove i valori dello spirito hanno la precedenza assoluta su qualunque interesse umano”.

A chi vorrebbe addomesticare tutto questo, togliere il sapore al sale che ha costruito la civiltà cristiana e l’Europa, ci permettiamo di ricordare che è semplicemente un’impresa impossibile perché se taceranno le monache e i monaci grideranno le pietre.

Come lo sappiamo? Perché, come dice madre Cabitza: “Fra le mura di ogni monastero è racchiuso il massimo di felicità che la terra può dare all’uomo, in proporzione dell’intensità dell’amore che opera nelle singole anime e della generosità con la quale si vive la parola di Dio: l’irraggiamento di gioia, di beatitudine che traspare anche al difuori, è la nostra testimonianza più vera”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Aldo Maria Valli:
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