
Cronache dalla grotta / Santi abati e libertà di spirito
di Rita Bettaglio
Adalardo di Corbie, Ildemaro: chi erano costoro?
Era il IX secolo, epoca carolingia, e Benedetto di Aniane lavorava alacremente alla cosiddetta riforma monastica carolingia. Essa, fortemente voluta da Carlo Magno e dal suo successore Ludovico il Pio, aveva come cardine l’idea di una regula, una consuetudo: una sola regola, quella di san Benedetto da Norcia, e una sola consuetudine, un solo modo di vivere il monachesimo. Questa linea, sancita dal primo sinodo di Aquisgrana nel 816, imponeva la Regola benedettina a tutti i monasteri del Sacro Romano Impero
Ma ciò non fu automatico né indolore: notevoli furono le sacche di resistenza perché la vita monastica, fino ad allora, era stata libera e multiforme.
Ormai la bella stagione la fa da padrone ovunque: le giornate sono lunghe (complice anche l’ora legale che ogni anno attendo con gioia) e nell’aria una promessa d’eternità fatta di campi fioriti, profumi, albe e tramonti maestosi.
Santa Caterina da Siena mi ha portato in una nuova grotta in cui ancora debbo ambientarmi. Traslocare, anche per quanto concerne le grotte, è sempre un morire per rinascere: costringe a prendere in mano, uno per uno, tutti gli ammennicoli che si accumulano con una velocità sorprendente, ed eliminare quelli che non servono. Era così comodo far finta che non ci fossero e rimandare a un indefinito domani. Invece bisogna occuparsene e decidersi di dare un taglio netto a molti di loro.
Lo stesso processo accade all’anima: mentre passano per le mani oggetti, libri, quaderni d’appunti, l’anima s’accorge d’essere essa stessa troppo ingombra e sovraffollata. Fare il repulisti interiore è ancora più difficile e temerario di quello delle masserizie, ma il Signore, con delicatezza e tempismo perfetti, sa come fare, per ognuno di noi. Talora usa anche la sofferenza, fisica e morale, per togliere il superfluo e rimanere Lui solo nella nostra grotta.
Ebbene, torniamo alla riforma carolingia. Sia chiaro che non ho nulla contro Carlo Magno, Ludovico il Pio e Benedetto di Aniane. Però difendo decisamente la biodiversità spirituale.
Nel monachesimo precedente al IX secolo erano frequentissime le cosiddette “regole miste”, cioè ogni monastero prendeva elementi da diverse regole e dagli antichi padri e le componeva in una propria visione della vita monastica. La Regola di san Benedetto non era la regola per eccellenza: era una regola tra le altre. Non esistevano gli ordini religiosi, tanto meno l’ordine di san Benedetto (OSB), che è un’istituzione relativamente recente, voluta da Leone XIII nel 1893 e affidata al cardinale Dusmet. Non si tratta, però, di un ordine, ma di una confederazione di congregazioni benedettine e all’Abate primate non spettano le prerogative dei superiori generali. L’OSB si diede un Lex propria, approvata da Pio XII con il breve Pacis vinculum del 1952 e più volte rivista.
E, allora, chi sono Adalardo di Corbie ed Ildemaro? Cosa fecero per meritare di essere ricordati?
Adalardo di Corbie era cugino di Carlo Magno: nel 773, all’età di vent’anni, entrò nel monastero di Corbie in Piccardia, fondato dalla regina santa Batilde. Pur legato alla famiglia imperiale (suo padre Bernardo era figlio di Carlo Martello) assunse in monastero il ruolo di giardiniere ma ben presto ne divenne abate. Tuttavia egli non riconosceva la Regola benedettina come unica norma monastica: nel suo monastero vivevano tradizioni non benedettine: non aveva ancora fatto il passo dalla “regula mixta” all’”una regula”. Egli difese strenuamente le abitudini della “regula mixta” contro Benedetto di Aniane. Fissò la sua consuetudo, radicata nella regula mixta nei suoi statuti dell’822 e la trasmise ai suoi allievi. Uno di loro, Ildemaro, li inserì nel suo commento alla Regola negli anni Quaranta del IX secolo.
Adalardo, perciò, rappresentò la resistenza all’imposizione carolingia della Regola benedettina come unica regola monastica. Non fu il solo, perché i nuclei di resistenza furono numerosi, compreso il monachesimo longobardo, quello della penisola iberica e quello d’Irlanda.
La Chiesa canonizzò sia Benedetto di Aniane sia Adalardo, riconoscendo legittime le loro divergenti posizioni riguardo alla pluralità delle concezioni della vita monastica. Questa è la straordinarietà della Chiesa, madre amorevole che conosce il cuore di ognuno dei suoi figli.
In una Chiesa come quella di oggi, in cui la vita monastica, e religiosa in genere, è stretta da mille vincoli e lacciuoli, io tengo decisamente per Adalardo e per la libertà di spirito del monachesimo e della Chiesa antica. Ora abbiamo perso in ricchezza, in pluralità, in vivacità.
Certo l’autorità è necessaria per guidare e difendere il popolo cristiano, ma è e deve essere a servizio dello Spirito Santo. Ed esso soffia dove e come vuole e nessuno lo può ingabbiare o trasformarlo in un management senz’anima.
Lo stesso codice di diritto canonico, utile e necessario, si chiude con l’affermazione che prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet: avendo presente la salvezza delle anime, che deve sempre essere nella Chiesa la legge suprema (can. 1752).
Lo stesso san Benedetto, nel capitolo II, dedicato all’abate, afferma: “Si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l’incremento del numero dei buoni. Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche” (RB 2, 32-33).
Parole sagge ispirate alla realtà e all’unico fine della vita cristiana: la salvezza delle anime.
In ogni grotta, nuova o antica che sia.
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