Colpito dalla gioia. Un ricordo di san Josemaría Escrivá de Balaguer 

Oggi, nel giorno in cui la Chiesa ricorda san Josemaría Escrivá de Balaguer  (1902 – 1975), ospitiamo una testimonianza diretta sul fondatore dell’Opus Dei. Risale al 1979 ed è del teologo e missionario spagnolo Silvestre Sancho Morales (1893 – 1981), confessore di monsignor Escrivá dal 1941 al 1946.

Nel sito escriva.org sono scaricabili tutte le opere di san Josemaría.

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di Silvestre Sancho Morales

Conobbi monsignor Escrivá de Balaguer nel 1935, in occasione di un viaggio che feci in Spagna da Manila. Ricordo che durante quel primo incontro parlammo a lungo dell’apostolato. Tuttavia, ciò che mi rimase più impresso furono alcuni tratti del suo carattere, soprattutto il suo entusiasmo e la sua gioia.

Non ci siamo più rivisti fino alla fine del 1941, quando sono tornato in Spagna, dove sono rimasto per dieci anni. Da allora in poi, fino a quando il fondatore dell’Opus Dei si stabilì a Roma nel 1946, abbiamo avuto l’opportunità di incontrarci frequentemente e di coltivare una profonda amicizia. In seguito, ho continuato a vederlo periodicamente a Roma. Le nostre conversazioni mi hanno sempre avvicinato a Dio.

Durante gli anni in cui abbiamo vissuto insieme a Madrid, mi recavo spesso a casa di don Josemaría per tenere lezioni di teologia ai membri dell’Opera, alcuni dei quali in seguito furono ordinati sacerdoti. Grazie a questi contatti con il fondatore dell’Opus Dei e alcuni dei suoi figli, ho avuto l’opportunità di approfondire la comprensione dello spirito che animava don Josemaría.

La prima cosa che vorrei sottolineare di monsignor Escrivá de Balaguer è la sua carità, un amore per Dio che traboccava in uno zelo instancabile per tutte le anime. Seguendo l’ordine della carità, ciò che risaltava anzitutto era il suo affetto paterno e la profonda sollecitudine per i suoi figli, i membri dell’Opera. Esigeva da loro con forza che diventassero santi e, allo stesso tempo, con la tenerezza e la delicatezza che un padre ha con i propri figli. All’inizio, ero costantemente sorpreso da questo modo di trattarli, soprattutto quelli che erano già uomini adulti e godevano di un meritato prestigio professionale. Tuttavia, capii presto che per Don Josemaría erano fondamentalmente proprio questo: i suoi figli.

Quando morì uno dei primi membri dell’Opus Dei, Isidoro Zorzano, il padre – come lo chiamavano i figli – diede un esempio di fortezza cristiana. Il suo cuore sentì il dolore della separazione fisica e mi raccontò di come si fosse rivolto amorevolmente al Signore, come se cercasse di capire perché avesse preso con sé un giovane che avrebbe potuto servirlo così bene sulla terra; ma di come avesse subito accettato la volontà di Dio senza riserve, ripetendo una potente preghiera che avevo già incluso nel numero 691 di «Cammino»: «Sia fatta, compiuta, lodata ed eternamente esaltata sopra ogni cosa la giustissima e amorosissima volontà di Dio. Amen. Amen». Mi disse di essere pieno di pace; e di essere anche confortato dalla consapevolezza che Isidoro era morto da santo.

Ma, come ho già detto, il suo amore non si fermava ai suoi figli; si estendeva a tutte le anime. La sua carità era ardente e abbracciava tutti gli uomini di ogni condizione. Per quanto riguarda la sia immensa opera apostolica sono sempre rimasto colpito dal grande lavoro che ha svolto con i sacerdoti diocesani. Predicava continuamente ritiri spirituali per i sacerdoti in tutta la Spagna. Lo faceva su richiesta dei vescovi, che riconoscevano la potenza della sua parola, sempre carica di visione soprannaturale ed energia apostolica. La sua comprensione affettuosa, la sua semplicità, la schiettezza e l’affabilità dei suoi modi conquistarono immediatamente il cuore di coloro che lo ascoltavano e crearono un’atmosfera che facilitò notevolmente la riforma.

Contrariamente a quanto era generalmente consuetudine, non chiese mai alcun compenso per questo lavoro con i sacerdoti: non solo si rifiutò di chiedere qualcosa, ma rifiutò anche di accettare doni, e pagò personalmente il viaggio. Svolse questo lavoro pastorale in silenzio, viaggiando instancabilmente da una parte all’altra.

A volte, al suo ritorno, parlavamo delle conoscenze che aveva acquisito durante quelle «fughe» da Madrid. Queste conversazioni mi lasciarono sempre convinto dell’enorme portata del suo lavoro con i sacerdoti; molte migliaia di anime avrebbero poi beneficiato della pietà e dello zelo che don Josemaría aveva saputo infondere nei suoi pastori. Solo Dio può apprezzare questo silenzioso servizio alla Chiesa.

Per don Josemaría, la consapevolezza della filiazione divina era particolarmente vivida. Questa profonda realtà illuminò tutta la sua vita e si diffuse a tutti coloro che gli furono vicini. Monsignor Escrivá de Balaguer ci ha sempre insegnato a impregnare e fondare la nostra vita di pietà su questa convinzione fondamentale: che siamo figli di Dio. In effetti, il senso della filiazione divina è uno dei tratti distintivi della spiritualità dell’Opus Dei.

La sua intensa preghiera personale lo manteneva costantemente in presenza di Dio. Ricordo in particolare la devozione con cui celebrava la Santa Messa. Il suo amore per il Santo Sacrificio era evidente nel raccoglimento con cui si avvicinava all’altare, nello spirito di preghiera con cui riempiva ogni cerimonia, nella pausa nei movimenti e nelle parole, e anche nella sua delicata fedeltà alle rubriche del Messale. Dopo la Santa Messa, rimaneva sempre in un intenso e fervente ringraziamento a Gesù Sacramentato. Questo affetto per la Santa Eucaristia si manifestava anche nelle sue frequenti visite al Santissimo Sacramento, che facevamo anche nell’oratorio della casa in via Diego de León, subito dopo aver lasciato la tavola, ogni volta che mi invitava a pranzo.

Tutto il comportamento di don Josemaría era il risultato di una vita interiore molto intensa. Il suo abbandono a Dio, fondato sulla fede e sulla speranza, era totale ed evidente in tutte le circostanze della sua vita, dalle più ordinarie ai momenti più difficili e dolorosi. La sua fiducia nel Signore si estendeva anche alla Vergine Maria e a san Giuseppe, ai santi e agli angeli custodi, con i quali manteneva un rapporto di amicizia e ai quali si rivolgeva frequentemente – come mi spiegò – per chiedere molte cose e considerarli potenti alleati nel suo apostolato.

Quando, all’inizio degli anni Quaranta – ancora lontani dal Concilio Vaticano II – scoppiò una feroce campagna di calunnie contro don Josemaría, scatenata da alcuni che forse non coglievano la profondità teologica della sua predicazione, potei essere testimone, ancora una volta, del suo eroico senso di carità e giustizia. In molte occasioni osservai il suo silenzio e come cambiasse argomento con naturalezza quando, nelle nostre conversazioni, si presentava una persona che, per giustizia, non poteva lodare. Visse alla lettera il suo consiglio: «Se non sai lodare, taci». Per tutta la sua vita, che non fu priva di abbondanti incomprensioni e calunnie, lo vidi mettere in pratica questo difficile consiglio con costanza e inconfutabile fermezza. Pur avendo avuto molte ragioni e motivi per rispondere a coloro che lo attaccavano, scelse sempre la preghiera e il silenzio, in un eroico esercizio di carità che lo portò ad amare tutti gli uomini per Dio, sempre e in modo insolito.

Ma c’è di più: in un’occasione mi confidò che ogni giorno durante la Santa Messa offriva a Dio, per coloro che avevano cercato di danneggiare l’Opus Dei, le stesse preghiere che offriva per i suoi genitori e per i suoi figli dell’Opera, vivi e defunti. E questo giorno dopo giorno, anno dopo anno…

Visse le contraddizioni con grande gioia, radicato in un profondo spirito di mortificazione. Sempre, in tutte queste occasioni, fu sostenuto da una salda fede e speranza soprannaturale che gli fecero dimenticare completamente sé stesso.

Monsignor Escrivá de Balaguer aveva piena fiducia in Dio, anche in mezzo a incomprensioni; era certo, come gli ho sentito dire molte volte, che essendo l’Opera opera di Dio, avrebbe prosperato. E ci ricordava sempre che il chicco di grano che muore è sempre fecondo, e che se arriva una burrasca o una persecuzione e lo porta via e lo disperde, dopo un po’ porta frutto in molti luoghi.

Un’altra caratteristica del fondatore dell’Opus Dei era il suo profondo rispetto per la libertà personale. Ricordo, ad esempio, come mi spiegò che nell’Opus Dei ognuno avrebbe dovuto guadagnarsi, attraverso il proprio lavoro professionale, i mezzi sufficienti per sostentarsi e svolgere i propri apostolati, così che se un giorno avesse voluto lasciare l’Opera avrebbe potuto farlo serenamente, senza timore per il proprio futuro. Pertanto, le ragioni della sua perseveranza sarebbero sempre state esclusivamente soprannaturali. «La perseveranza nell’Opus Dei – diceva – deve essere sempre la conseguenza di un amore presente e costantemente rinnovato».

Ho avuto l’opportunità di assistere più volte a come usasse ogni mezzo soprannaturale e umano per assicurare questa libera perseveranza, insegnando ai suoi figli a fare lo stesso. Pregava molto e si sottoponeva a severe penitenze, pregando per la fedeltà dei membri dell’Opera, mentre allo stesso tempo li colmava di affetto e comprensione. A volte, faceva viaggi molto lunghi in terza classe sui treni dell’epoca, senza denaro per il cibo, perché voleva parlare con qualcuno che si trovava in difficoltà.

Sebbene ritenga impossibile riassumere in poche pagine tutte le virtù del fondatore dell’Opus Dei, non voglio tralasciare di sottolinearne una che, come dicevo all’inizio di queste righe, ho scoperto nel nostro primo colloquio: la gioia.

Era un conforto parlare con don Josemaría: per il suo senso soprannaturale della vita e perché era sempre di buon umore. Per me, la gioia era la sua virtù più caratteristica, senza dubbio basata sulla profonda conoscenza che Dio gli aveva dato della filiazione divina. «Tristi sono coloro che non si considerano figli di Dio», diceva. Commentava spesso: «Voglio che i miei figli siano sempre molto allegri».

La sua gioia mi sembra una chiara conseguenza della sua grande fedeltà a Gesù Cristo e alla sua vocazione, e mi fa comprendere meglio la sua profonda umiltà, perché l’orgoglio, anche al minimo grado, è incompatibile con la gioia. Monsignor Escrivá de Balaguer seppe sempre mantenere, per tutta la sua vita terrena, questa immensa gioia, soprannaturale e umana, perché era straordinariamente umile. Si considerava uno strumento inetto e sordo nelle mani di Dio e si era dato un modello di condotta saldamente radicato nell’umiltà: «Nascondersi e scomparire è il mio mestiere; che solo Gesù brilli».

L’impressione che ho del padre è quella di un uomo di immensa virtù, sebbene la sua profonda umiltà gli facesse vivere la vita con grande naturalezza. Amava e viveva la povertà eroicamente, senza ostentazione; era comprensivo, senza falso rispetto umano; sereno, con grande moderazione in ogni cosa; generoso, magnanimo e allo stesso tempo attento ai minimi dettagli.

Oltre alle sue virtù e alla sua completa fedeltà alla volontà di Dio, il temperamento di monsignor Escrivá de Balaguer, la sua personalità e la sua visione ottimistica della vita, come il resto delle sue eccezionali qualità naturali, facevano parte della sua vocazione di strumento di Dio nella realizzazione dell’Opus Dei.

Ci ha sempre insegnato a mettere a servizio di Dio tutte le buone qualità che ci ha concesso, e ci ha dato l’esempio impegnandosi ogni giorno a crescere nelle virtù e dedicando tutta la sua vita alla missione divina che aveva ricevuto: lavorare per Dio e per Dio nel mondo, conducendo le anime lungo i sentieri divini della terra.

Ecco perché nutro tanto affetto per il Padre, perché ho avuto l’opportunità di vedere che era un uomo santo e pieno di gioia.

Ha trascorso tutta la vita portando avanti eroicamente e con gioia la missione che Dio gli ha affidato: formare Cristo nelle anime dei cristiani comuni che vivono in mezzo al mondo.

 

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