Verso il conclave / E se uscisse la figurina di Pizzaballa?

Dicono che in questi giorni, durante le congregazioni, stia parlando pochissimo. Ma ascolta molto. Com’è nel suo stile. Non è uno che ami essere protagonista. Ma ha una coerenza e una concretezza, molto lombarde, che gli procurano quella cosa che manca a non pochi altri porporati dati per papabili: la credibilità.

Pierbattista Pizzaballa da Cologno al Serio (Bergamo), francescano, laurea in teologia presso lo studio teologico Sant’Antonio di Bologna e studi biblici a Gerusalemme, fin dall’inizio della sua formazione è stato legato ai luoghi santi. Come custode di Terra Santa (venne nominato nel 2004) ha lavorato per la tutela dei santuari cristiani e nella gestione dei rapporti con ebraismo e islam. Nel 2016 papa Francesco lo ha scelto come amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, nomina confermata nel 2020 con l’elevazione a patriarca. E nel 2023 ecco la porpora, che ne fa il primo patriarca latino di Gerusalemme incluso nel Collegio cardinalizio in epoca moderna.

Ha studiato ebraico, lo comprende e lo parla. Diplomatico per necessità e per vocazione, sa essere comunque chiaro. In occasione della Pasqua ha ammesso: “Da noi, data la situazione, sembra difficile parlare di vita e di speranza” [tutte le citazioni che faremo sono tratte dal dialogo del cardinale con Matteo Matzuzzi per Il Foglio].

Inutile girarci attorno: “C’è un prima e c’è un dopo il 7 ottobre 2023”, l’attacco di Hamas a Israele. Un choc per tutti: israeliani, palestinesi, arabi in generale. “Si vive molto male. C’è un profondo senso di sfiducia che penetra la vita sociale a tutti i livelli. Sarà molto difficile ricostruire”.

Anche a livello religioso non c’è quasi più interazione. “Molto difficile incontrarsi. Tutto è fermo. Ciascuno è chiuso dentro la propria narrativa religiosa”.

L’aggettivo “difficile” ricorre di frequente nelle sue analisi. Da credente e da sacerdote, di certo non perde la speranza, ma non può negare la realtà.  Alla quale contrappone non filosofie o ideologie, ma un volto: Gesù. Dice: “Come Chiesa non si tratta di fare marketing. Si tratta di saper dire in maniera seria e solida la fede. Ma per essere convincenti bisogna essere convinti. E per crederci veramente dobbiamo averne fatto esperienza”.

Se non si parla di conversione e di peccato è perché si esclude Dio dalla vita: “Credo sia ovvio che oggi non si parli di conversione e di peccato. Presuppongono l’esistenza di Dio. Se Dio è presente nella tua vita, senti anche il bisogno di convertirti. Se hai la coscienza della presenza di Dio accanto a te, hai anche la coscienza del peccato e quindi della conversione. Ma se non hai la coscienza della vita trascendente, se non hai coscienza che c’è qualcuno che è fonte di vita e che te la cambia, e non hai bisogno di lui, non hai neanche bisogno di convertirti. Oggi non si parla di conversione perché abbiamo perso la coscienza di Dio. È inutile parlare di conversione se prima non si parla di Dio. È da lì che bisogna partire. La coscienza di Dio ti porta a capire che di fronte a lui sei sempre mancante e hai il bisogno di convertirti. È un itinerario continuo, ma il punto di partenza è la coscienza di Dio. Una Chiesa che non parla di Dio a cosa serve?”.

La speranza, si diceva. Visto dall’epicentro di un conflitto interminabile sembra un concetto vuoto. Ma il cardinale precisa: “Per voi, in Occidente, è facile confondere speranza e ottimismo. Per noi, in Terra Santa, è facile confondere la speranza con la fine del conflitto o con una soluzione politica. Se si identifica la speranza con un orizzonte solamente umano, per quanto bello e voluto, come la fine del conflitto, ci illudiamo che saremo consolati. La speranza, a mio avviso, non è l’attesa di qualcosa che deve venire, ma è espressione della propria esperienza, qualcosa che si ha dentro di sé. È figlia della fede. Senza fede, la speranza non ha fondamento su cui basarsi”.

Circa l’attuale ignoranza religiosa, racconta: “Quando ho accompagnato gli adulti al battesimo non ho mai iniziato dal catechismo. Iniziavo con il Vangelo, perché devi innanzitutto fare incontrare Gesù, farlo conoscere direttamente. Poi ciascuno deve capire come vivere questa esperienza, come tradurla nella vita, ed ecco che allora entra in gioco il catechismo. Se non c’è l’incontro con il Signore, la catechesi e la formazione diventano come una cornice bella, costruita, ma senza il quadro dentro”.

Muoversi nel ginepraio del conflitto israelo-palestinese può rendere cinici oppure tanto felpati da scivolare nell’esteriorità. Nel caso di Pizzaballa non è successo. Il dialogo è il suo pane quotidiano, spesso amaro, ma preferisce promuoverlo più che farne un argomento retorico. Sincero, può risultare scomodo, specie quando denuncia la strumentalizzazione della religione da parte della politica, ma è rispettato.

Ha compiuto sessant’anni il 21 aprile scorso, lunedì dell’Angelo, il giorno della morte di Francesco. Dicono: un po’ troppo giovane per essere papa.

Cittadino onorario di Bergamo, è imparentato con Pierlugi Pizzaballa, ex portiere dell’Atalanta, celebre perché la sua figurina, alla metà degli anni Sessanta, era introvabile e quindi preziosissima.

E se dal conclave uscisse la figurina di un altro Pizzaballa?

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Foto LaPresse

 

 

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